GIANNI DE TORA

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1997 Biblioteca Comunale di Nocera Inferiore (SA) 21 Giugno 30 Luglio

GENER-AZIONI 2
 
STRALCIO DAL REDAZIONALE SULLA RIVISTA ''ECO D'ARTE MODERNA'' N.112 DELL'ESTATE DEL 1997

Attività in Campania

Con la mostra "Gener-azioni", dopo il successo espositivo avuto al Palazzo della Pretura di Casoria (Napoli), gli artisti campani Renato Barisani, Carmine Di Ruggiero, Domenico Spinosa, Gianni De Tora, maestri storici dell'arte napòletana dal dopoguerra ad oggi, e Mario Lanzione ed il giovane Antonio Manfredi hanno ribadito le loro posizioni di lavoro, di professionalità e di continuità della loro ricerca espressiva con una successiva presenza alla Biblioteca Comunale di Nocera Inferiore (Salerno) nella mostra "Gener- azioni 2", fino a tutto luglio. Ciò che li accomuna è la ricerca espressiva che oscilla fra astrazione ed informale, sebbene condotta con varie digressioni formali e contenutistiche negli interventi segnici, formali e cromatici. Le rassegne sono state presentate in catalogo e in dibattito con tavole rotonde da Vitaliano Corbi, Nicola Scontrino, Giorgio Segato, Manuela Crescentini e Antonio Gasbarrino......

 
STRALCIO DALL' ARTICOLO DI TERESA VITOLO SUL QUOTIDIANO ''L'AGRO'' DEL 20 GIUGNO 1997

Gener-azioni 2 -la rassegna di pittura si terrà all'interno di Palazzo S.Matteo

…...Sabato 21 giugno Palazzo S.Matteo -biblioteca comunale- sarà restituito al suo uso più nobile, ristrutturato e restaurato con un accorto lavoro di recupero statico e architettonico.Per l'occasione sarà presentata al pubblico la rassegna di pittura ('' Gener-azioni 2'') realizzata dall'Ufficio Pubblica Istruzione e Cultura del Comune di Nocera Inferiore, dalla Galleria d'arte Il Ponte e saranno esposte opere di: Barisani, De Tora, Di Ruggiero, Lanzione, Manfredi e Spinosa; una tavola rotonda sarà coordinata dai critici Vitaliano Corbi, Antonio Gasbarrini, Nicola Scontrino, Giorgio Segato.L'attenzione e la cura degli amministratori dovrà essere, per il futuro, quella di ospitare negli spazi di Palazzo S.Matteo eventi in linea con la splendida opera di recupero, nel convincimento che solo una serie di opportunità culturali di alto livello potrà aumentare il credito di fiducia dei cittadini verso i loro amministratori.

 
cartoncino di invito
 
 
TESTO DI MANUELA CRESCENTINI SUL CATALOGO DELLA MOSTRA

Un saluto veloce e qualche considerazione

Al cordiale invito degli amici napoletani che sollecitano un pronunziamento, da un osservatorio vicino e diverso come quello romano, sulla loro iniziativa espositiva avviata nella scorsa primavera nel Palazzo della Pretura di Casoria, e ora riproposta a Nocera Inferiore, volentieri rispondo che questa mi appare al di là dell' occasione di un confronto affettuoso tra almeno tre generazioni di artisti che si stimano, anche implicitamente la proposta di una possibile traiettoria di pittura oggi a Napoli. E ciò non tanto perché Spinosa, Barisani, Di Ruggiero, De Tora, Lanzione e Manfredi siano soprattutto, ma non solo pittori-pittori, ma in quanto la linea della ricerca che il catalogo della mostra restituisce nelle immagini risulta essere, entro un contesto di riferimento appunto sostanzialmente pittorico, anche di connotazione segnica. Un segno tuttavia non indiscriminato: che in Spinosa graffia nel vivo del colore a restituire il lirismo di una natura felicemente evocata ed emozionalmente riproposta; mentre in Barisani sembra inseguire con intenzione narrativa un'icona emblernatica di una sorta di vitalismo cosmico, in chiave mitopoietica; e che in Di Ruggiero ordina e separa invece lo spazio, scandendolo in una pittoricità umorosa e ieratica laicamente liturgica; mentre ancora in De Tora assume toni quasi di esuberante episodio grafitista su calme campiture di colore giustapposte. Per Lanzione si tratta invece di un segno risultante dai confini sovrapposti di carte trasparenti incollate su tavola, un segno di bordura, dinamicizzante, nascosto e misterioso, e tuttavia percettibile: infine per Manfredi, il più giovane del sestetto e l'unico impegnato in installazioni a parete, un segno che definisce rigorosamente i "margini" delle forme spaziali geometriche, che attiva percettivamente, assieme al colore, la fruizione dinamica dello spazio. Tutti d'altro canto, a vario titolo, sembrano coralmente prediligere la bidimensionalità della superficie, alludendo ad una virtualità spaziale tipica del nostro secolo dal cubismo in poi; ed altrettanto tutti prediligere una linea di non figurazione, anche se Spinosa e Barisani in particolare risultano poi impegnati, ciascuno a proprio modo, in un certo analogismo figurale. Ma se queste osservazioni sono orientate a rilevare alcune possibili caratteristiche comuni nel lavoro dei sei sodali, altre ce ne sarebbero del tutto proiettate sulle differenze. Ad esempio, la evidente libertà fantasiosa alla quale si abbandonano più Spinosa che Barisani non trova riscontro nel lavoro ordinato, pensato e costruito di De Tora, Lanzione e Manfredi, con Di Ruggiero in posizione solitaria di equilibrio tra ordine e fantasia. Ciò che comunque più colpisce di questa iniziativa di confronto è il desiderio di discutere, di mettersi alla prova, di sfidare, proponendosi il contesto nazionale e napoletano in maniera autonoma e autogestita non aggressiva. In una situazione locale invece che s'intrattiene nell'antico atteggiamento autolesionistico del tutti contro tutti, pagato carissimo, in termini di isolamento, non solo dall' ambiente artistico specificamente napoletano ma in genere da tutto il meridione.

 
TESTO DI VITALIANO CORBI PRESENTE SUL CATALOGO DELLA MOSTRA

GENERAZIONI (2)

Questa mostra, nata dall'incontro di sei artisti napoletani, diversi per generazione e per formazione culturale, ha molti meriti. Il primo, di tutta evidenza, ma non per questo meno importante, è di presentarsi come una raccolta di opere di così alta 'qualità' da costituire uno dei maggiori avvenimenti espositivi dell' anno e da aver diritto non solo all'attenzione di un largo pubblico, ma anche delle istituzioni pubbliche e dei mezzi d'informazione, che impegnati per ragioni di audience nel promuovere ed enfatizzare gli eventi dell' arte-spettacolo - come ha già osservato Giorgio Segato, curatore, insieme con Nicola Scontrino, della prima edizione di questa rassegna - mostrano invece scarso interesse per i momenti veramente significativi della vita artistica. So bene che la questione della qualità delle opere viene di solito considerata troppo generica o ambigua e, in fondo, superata, nella realtà del cosiddetto 'sistema dell' arte, dai meccanismi di selezione regolati essenzialmente dalle leggi del mercato. Mi rendo anche conto che non è questa certamente l'occasione per tentare di sciogliere il complesso nodo teorico sotteso al concetto di qualità artistica, ma, d'altra parte, senza voler deprimere il ruolo delicato ed insostituibile svolto da mercanti e da galleristi, si ammetterà che, in un momento di diffuso ripensamento sul ruolo salvifico del mercato e sulle virtù del liberismo selvaggio, è lecito nutrire qualche dubbio anche sulla opportunità di accantonare la problematicità di quel concetto e di accettare di fatto l'identificazione del valore artistico con il valore di scambio. Lasciamo, dunque, che il riconoscimento di questo primo e fondamentale merito della mostra rimanga affidato alla risposta di quanti vorranno cercare il rapporto diretto con le opere di Barisani, De Tora, Di Ruggiero, Lanzione, Manfredi e Spinosa. E sarà proprio il rapporto con le opere a con- fermare un altro tratto che caratterizza questa manifestazione: il modo in cui convivono le opere dei nostri sei artisti non ha nulla dell' eterogeneità di tante 'collettive' né della rigidità di certe formule critiche preconfezionate. La convivenza in un unico spazio espositivo indubbiamente esalta quanto di proprio ed originale è nel lavoro di ciascun artista, ma provoca anche I'effetto di un alone comune, di un orizzonte di riferimenti culturali suscitato appunto dall'incontro di esperienze diverse, ma tra di loro dialoganti. La vivace e nitida sensazione di un' articolazione per differenze, interna alla mostra, si manifesta in prima istanza, nell'immediatezza cioè dell'impatto percettivo, come variazione tra una pluralità di nuclei fenomenici, come tensione tra la gioiosa, rutilante vibrazione dei colori di Spinosa e la severa ed insieme delicata architettura dei grigi di De Tora, tra la luminosa misura delle superfici pittoriche di Barisani e il dinamismo dei piani trasparenti di Lanzione, tra il sospeso stupore dei frammenti di Di Ruggiero e il coinvolgimento ambientale delle geometrie di Manfredi. All' origine di questa fittissima rete di rimandi c'è indubbiamente l' appartenenza ad una medesima area, non solo geografica ed antropologica, ma anche culturale, qual'è quella napoletana, segnata da tempo da forti emergenze creative, indubbiamente radicate nell' humus locale, ma anche alimentate da una circolazione di cultura internazionale. La quale, sarà bene precisare, non si spiega solo con l'attività svolta negli ultimi due decenni da qualche prestigiosa galleria privata, rivolta prevalentemente all'importazione di prodotti talvolta anche di grandi marche, ma selezionati ed imposti sul mercato napoletano con criteri e metodi che hanno poco a che vedere con il confronto culturale. Ci riferiamo invece ad un più ampio contesto di avvenimenti, che risalgono almeno all'avvio degli anni '50, proprio quando due degli artisti presenti in questa mostra, Barisani e Spinosa, tra concretismo ed informale, davano alla loro esperienza artistica un respiro europeo. All'origine, dunque, della convergenza che questa mostra ha saputo felicemente tradurre in un incontro espositivo c'è qualcosa di più della generica appartenenza ad un' area comune. Si tratta di una frequentazione non dico, certo, di gruppo o di tendenza, ma di un versante dell' arte contemporanea per indicare il quale ha forse ancora qualche senso il riferimento all' astrazione. In altre parole, credo che nei confronti di questi artisti non sia criticamente infondato ritornare ad interrogarsi sul senso dell' astrazione, intesa come fascio di molteplici esperienze che nessuno oggi immagina di poter definire univocamente, ma che tuttavia possiedono una loro continuità storica, forse più facilmente rilevabile nella concretezza degli scambi e degli intrecci linguistici che non per una coerente omogeneità teorica, questa sì ben presto frantumatasi - già nelle mani dei padri dell' astrazione, e intendo proprio di Mondrian e di Kandinsky - sotto le spinte opposte di un ontologismo totalizzante e di uno sperimentalismo di matrice scientista, segnato da pretese non meno assolutistiche. Forse ci si chiederà quale valore possa avere questo problema - che sa oltretutto di lontani antagonismi ideologici - oggi, nel clima del 'postmoderno' dominato dal gusto delle contaminazioni, degli impasti di cultura snervati, capaci di riciclare con indifferenza i più diversi ingredienti. La risposta, che non può ovviamente che fare la tara a questa rozza e pasticciata idea di fuoriuscita dalla cultura della modernità e dalla sua dimensione progettuale, in nome di un eclettismo teorico che somiglia troppo ad una accomodante e cinica resa all' esistente, porterebbe molto lontano. Ci si dovrà contentare qui di riassumerla nell' evidenza direi esemplare del segno di questa stessa mostra, dove ancora appare viva la coscienza dell'importanza di certi confini all'interno dell'arte e della riflessione critica su di essi, con la ricerca di una coerenza espressiva, nel nome appunto dell' astrazione, che consente a questi artisti di avvicinare, senza però scavalcarlo, quel confine al di là del quale le immagini dell'arte acquistano I'illusoria apparenza della realtà e si confrontano direttamente con lo spettacolo del mondo. Invece qui, nel territorio dell' astrazione attraversato dai nostri sei artisti campani, lo sguardo si sposta dal gioco speculare tra le figure della vita e dell' arte al processo di costituzione di questa. E ciò va detto chiaramente, soprattutto per sottolineare come la bellezza fenomenica persino sensuale di tutti lavori esposti in questa mostra dimostri che l'astrazione non è la strada dell'allontanamento dai valori fenomenici, dalle qualità sensibili attraverso cui noi viviamo il nostro rapporto col mondo, e che il suo approdo storico non può essere riconosciuto nella frigidità di certi prodotti concettuali o neominimalisti. Se da una parte la straordinaria flagranza percettiva delle opere richiama prepotentemente l'attenzione sulla qualità visiva dell'immagine, sul suo darsi allo sguardo qui ed ora, non come simbolo trasparente che rimandi ad altro, ma come presenza assoluta ed inso- stituibile, dall'altra parte s'avverte in esse una costitutiva apertura al mondo: non già nel senso del loro riassorbimento nelle immediate circostanze ambientali, ma in quello della loro capacità di convocare sul proprio orizzonte gli echi di altre esperienze, e non solo visive. Rigore formale e bellezza sensuale, intenzionalità consapevole e ''mondo della vita" sono i termini tra i quali si svolge la ricerca di questi artisti e la ricchezza dei movimenti, le imprevedibilità degli esiti concreti ci dicono che non si tratta di uno schema precostituito, ma di una tensione che riesce a legare il momento della spontaneità creativa, affondato nelle stratificazioni della soggettività, con quello della dimensione operativa controllata e dell'espressione artistica consapevole, poiché l'intenzionalità che è alla base di ogni autentica progettualità estetica ha le sue radici nella soggettività precategoriale della Lebenswelt o, se mi è concesso un accostamento di Husserl a Freud, nella regione profonda dell'Es. Questa mostra ha una sua storia, che non è ovviamente solo quella dei propositi culturali e delle vicende organizzative da cui è nata. E' la storia degli artisti che vi partecipano: una storia che, attraverso vari passaggi generazionali, prende avvio dal secondo dopoguerra e che, appena pochi anni dopo, come già si è accennato, col concretismo di Barisani e l'informale di Spinosa, incomincia già a delineare gli estremi tra cui in seguito essa si muoverà. Il percorso del gruppo napoletano arte concreta, di cui fecero parte con Renato Barisani, Renato De Fusco, Guido Tatafìore e Antonio Venditti, s'inoltrò nell'area variegata dell'astrattismo italiano, toccando non solo Milano, ma anche Roma e Firenze. Nel secondo dopoguerra, del resto, l'Italia e l'Europa erano state largamente attraversate da una ripresa di poetiche astratto-concrete. E proprio in rapporto a questo più ampio e vario contesto europeo non è azzardato affermare che il gruppo napoletano, forse sotto la spinta di un'utopia alimentata dalla coscienza della gravità dei problemi della società meridionale, tendesse a ricondurre l'accento su certi temi cari alla cultura del 'razionalismo', arrivando infine a sostenere la necessità di "inserire il lavoro artistico nella produttività contemporanea, dall'architettura alla produzione industriale, la rinuncia di una creatività individualistica per la collaborazione con altri artefici, l'incontro con gli uomini sul piano del lavoro". Dal '50, quando egli, poco più che trentenne, avviò le sue prime esperienze astratte, il modo d'intendere l'astrazione di Barisani è stato sempre segnato da una inconsueta ampiezza e libertà d'investigazione. Nel corso di un cinquantennio quasi di attività egli ha attraversato il territorio delle esperienze non-figurative tracciandovi percorsi di eccezionale nitore formale, ma anche estremamente mobili e aperti su orizzonti diversi. Il passaggio dalle geometrie del neoconcretismo ai densi conglomerati materici dell'informale, dall'inquieta emblematicità degli oggetti meccanici alla nuda essenzialità delle strutture modulari e, da qui, alla loro candidatura ad una dimensione architettonica ed urbanistica, fino all'evocazione d'una vitalità organica con un sentimento persino gioioso e sensuale della bellezza del colore, segnala il vario svolgimento di una 'poetica' caratterizzata dal primato della pratica fenomenologica del linguaggio artistico (come ha più volte sottolineato E. Crispolti). Ciò vuol dire anche che la scelta con cui s'aprirono per Barisani gli anni '50 - pur nella specificità delle motivazioni del momento storico, confluite nella costituzione del Gruppo Napoletano Arte Concreta - non è da leggere semplicemente come un'opzione di parte, una presa di posizione che vincolava l'artista a un patto di fedeltà formale ed ideologica. Essa rappresentava certamente una risposta culturale ai problemi che allora si ponevano alla sensibilità del giovane artista, ma toccava ragioni oserei dire esistenziali, la cui autenticità avrebbe costituito il fondamento del rinnovarsi, nel tempo, di quelle stesse originarie mozioni di libertà. L'attività del gruppo 'Geometria e Ricerca' costituito nel '76 da Barisani, De Tora, Di Ruggiero, Riccini, Tatafiore e Testa, cui s'aggiunse l'anno dopo Trapani - segna un altro importante momento della ricerca astratta a Napoli. L'attenzione ora si sposta dal ruolo sociale dell'arte alla sua dimensione linguistico-conoscitiva. Non per caso nel catalogo di una mostra del gruppo era riportato il famoso passo in cui Galilei afferma che il libro dell'universo "è scritto nella lingua matematica e i suoi caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche". Lo spostamento d'accento era, però, un fatto secondario rispetto alla continuità di una ricerca che insistendo sulla concretezza del fare arte entrava consapevolmente in polemiea con le tendenze 'comportamentistiche' e 'concettuali' allora dominanti. Tra i meriti degli artisti di 'Geometria e Ricerca' c'è quello di non aver abbandonato il terreno specifico delle pratiche artistiche e di aver continuato - per dirla semplicemente - a dipingere quadri ed a realizzare oggetti artistici. Essi non credettero che con le performances più o meno politicizzate o con le analisi concettuali si potesse sottrarre l'arte ai suoi limiti storici ed insieme al pericolo della mercificazione. Le loro opere, in cui le forme dell"'immaginario geometrico" appaiono felicemente in bilico tra fantasia e spirito critico, documentano una volontà di resistenza culturale al processo di mercificazione, che in quegli anni - con la diffusione delle tecnologie avanzate e dei nuovi modi di comunicazione nella società dei consumi di massa - incominciava a diventare così pervasivo da coinvolgere non più l'opera d'arte in quanto possile oggetto di scambio, ma l'intero campo della produzione dei linguaggi e dei comportamenti. Carmine Di Ruggiero aveva esordito negli anni '50 con una pittura di forte partecipazione informale, non lontana da certi aspetti dell"ultimo naturalismo" padano. Nella prima metà del decennio successivo, dai frammenti dell'immagine pittorica esplosa nella luce egli ricavò tasselli e strutture che preludevano alla svolta verso le forme geometriche e allo sconfinamento fuori del quadro. L'approdo oggettuale avvenne tra il '66 e il '67. Come annotò tempestivamente Filiberto Menna, le opere di Di Ruggiero si vennero a collocare "in un contesto di esperienze tendenti ad una sempre più marcata e rigorosa oggettivazione del fatto artistico". Il successivo passaggio ad una rigorosa ricerca geometrica, caratterizzata dalla variazione di un unico modulo triangolare, potrà apparire anche brusco, ma in realtà esso, mentre segna l'inizio del progressivo riassorbimento sulla superficie dipinta di quei precedenti elementi oggettuali, riconduce il candore luminoso delle sculture al bianco dei grandi fondi che serra tutt'intorno le schiere colorate dei triangoli. Non è perciò priva di una sua intima coerenza la ripresa dei modi informali avvenuta nel corso degli anni '80. Ma va notato che questa fase dell' esperienza artistica di Di Ruggiero, tuttora direi in pieno corso, si svolse al riparo dall'ondata torbida che dilagò al seguito dei vari esempi di pittura 'selvaggia'. E ciò perché l'artista rimane sempre particolarmente attento ai valori strutturali dell'opera. Notazioni rapide del segno e depositi frammentari di colore organizzano l'immagine secondo un andamento ritmico che s'affida non solo ad un'agile corsività, ma anche al rapporto tra la materia e la sua assenza. Queste pause scandiscono il respiro interno e preparano quel bianco silenzio che nelle opere di questi ultimi anni accompagna il presentarsi dell'immagine sulla immobile scena del quadro. Gianni De Tora, dopo un periodo di frequenti viaggi e di soggiorni all'estero, soprattutto tra Parigi e Londra, all'inizio degli anni '70 si era orientato verso l'astrazione geometrica. Il momento decisivo di questa ricerca nella quale la geometria fornisce una risposta al problema dell'organizzazione dei segni coincide appunto con la partecipazione dell'artista al gruppo di "Geometria e Ricerca''. Ma, come aveva intuito Crispolti fin dal '75, si tratta pur sempre del tentativo di "fissare entro un controllo strutturale geometrizzato i termini di una mutazione di natura, infinitamente fluida e sfuggevole". Perciò non meraviglia che durante gli anni '80 ritorni nella purezza dei colori e nel rigore della forma il fascino del dato naturale. Questo, luminosamente trasfigurato, conquista una posizione centrale nel quadro, entro una sorta di finestra aperta sul mondo, quasi un quadro nel quadro, o forse un brano di preziosa pittura incastonato entro la severa scenografia di larghe campiture di grigi e di neri. Nelle opere più recenti, forse neppure esposte in questa mostra, l'artista sembra voler rinunciare alla suggestione dell'incontro tra geometria e natura e, procedendo dapprima ad una riduzione sempre più asciutta della fenomenicità di questa, poi al suo completo riassorbimento entro la struttura del dipinto, concentra il proprio intervento sul rapporto tra zone lucide ed opache, della superficie dipinta, entro schemi compositivi che introducono un moderato elemento di dinamismo attraverso lo scatto delle asimmetrie. Lo stretto rapporto di Domenico Spinosa con l'informale ha ben poco in comune con la versione per così dire tragica e viscerale di questo ultimo grande movimento pittorico apparso sulla scena dell' arte contemporanea. Nei dipinti di Spinosa, a partire dal '53, il colore acquista la pienezza di un corpo, accarezzato e graffiato nella carne dei suoi impasti, ma restituito poi interamente alla dimensione visiva attraverso i valori tonali e la loro articolazione spaziale. Anche nei momenti di più risentita matericità, come in molte opere tra la fine degli anni '50 e l'inizio del decennio successivo, ai suggerimenti di prossimità tattile corrispondono sempre altri di lontananza, di luminosità e di trasparenza. Quella di Spinosa non è mai stata materia bruta, cieca, realtà autre che resista allo sguardo chiudendosi in una oggettività insondabile e quasi ostile al rapporto con l'uomo. Si potrebbe pensare, allora, che rispetto ai modi propri della pittura informale Spinosa abbia operato una riconversione in senso naturalistico, recuperando certe caratteristiche proprie della spazialità pittorica tradizionale. Al contrario, se un certo oltranzismo naturalistico è presente proprio in quel- l'informale che attraverso lo scandaglio della materia s'illudeva di conquistare, al di là delle prime apparenze, il cuore più segreto ed oscuro della natura, la lontananza, l'ariosità e la trasparenza luminosa che fanno respirare i dipinti di Spinosa costituiscono il segnale dello scarto dall'opacità esistenziale verso la leggerezza, intesa come qualità di un linguaggio pittorico liberato dalla gravità del mondo delle cose. Tuttavia è difficile negare che da alcuni anni Spinosa ha rinnovato e reso più agevolmente riconoscibile il rapporto con la realtà fenomenica, che egli, del resto, lungo l'intero arco della sua ricerca artistica non ha mai del tutto interrotto. Mario Pomilio, che ha scritto alcune delle pagine più penetranti sulla pittura di Spinosa, ha insistito giustamente sul "senso fortissimo della mutevolezza della realtà fenomenica... come sorpresa tra due battiti di ciglia e per quell'istante sollevata al magico, all'illusorio, al surreale". Questa capacità di esprimere l'assoluta bellezza fenomenica che si può concentrare nella percezione di un attimo di vita fa sì che lo sguardo dell' artista, vagando tra il cielo e le chiome degli ulivi o posandosi sul volo di una libellula senta cadere da sé la malinconia di cui è carica la memoria e s'immerga felice nel mondo che la pittura gli apre dinanzi. La prima 'personale' di Lanzione, nel Centro Zero di Angri, è del '73 e il catalogo reca la presentazione di Spinosa. Pochi anni dopo, nel '77, una collettiva nella stessa galleria vede accanto ad un gruppo di dipinti di Spinosa e di alcuni suoi allievi (tra cui di nuovo Lanzione) anche alcune opere di Barisani. L'intreccio tra quelle che si possono considerare due linee portanti della ricerca astratta a Napoli, non rigidamente separate, ma tuttavia chiaramente distinguibili, continuerà in seguito a svilupparsi in occasione di altri appuntamenti espositivi, che possono essere considerati in qualche modo le immediate premesse a questa nostra rassegna. Durante gli anni '80 a Napoli, come altrove, del resto, su questa linea si sono ritrovati parecchi artisti. Essa era stata già nitidamente tracciata tra seconda metà del decennio '60 e l'avvio di quello successivo, quando era diventata minima la distanza anche tra Barisani e Spinosa. Quando, per effetto di due diversi ma convergenti modi di avvertire la presenza della natura entro l'esperienza dell'arte, l'attitudine di Barisani a sperimentare tecniche e materiali nuovi, spinta fino ad includere nell' orizzonte della ricerca astratta il gioco dei riflessi, delle circostanze ambientali e delle luci del paesaggio mediterraneo s'era venuta a trovare non molto lontano dall'approdo cui era intanto pervenuto Spinosa riducendo l'impianto figurativo dei suoi dipinti precedenti ad una misura di estrema essenzialità, quasi una densa e scarna matericità che continuava tuttavia ad evocare suggestive connotazioni di ambiente e di paesaggio. La pittura di Mario Lanzione, che, come s'è detto, è stato allievo di Spinosa, è attraversata dalla tensione espressiva tra il polo del rigore formale, dove nasce l'idea di una geometria di largo impianto spaziale, e quello della sensibilità, dove la bellezza della materia passa dalle stesure compatte del colore alla trasparenza delle carte veline. Da anni l'artista va inseguendo l'idea di un mondo in cui la tenerezza dei sensi si sposi con la prospettiva di spazi misteriosi, ma non ostili, forse perchè anch'essi sostenuti, come i frammenti della natura più vicina e familiare, dalla stessa sensuale materia e dalle stesse rigorose coordinate geometriche. Ma la saldatura tra quei due momenti della pittura contemporanea - l' astrazione geometrica e l' esperienza informale - per Lanzione non è un' operazione che si possa realizzare epidermicamente sulla superfieie del quadro. L'impulso originario sta probabilmente al di là dell'arte stessa e coinvolge quelle ragioni che hanno spinto di tanto in tanto Lanzione ad esprimersi con interventi estetici fuori dei confini tradizionali dell'arte, o ad accettare commissioni di opere inserite direttamente nel contesto ambientale. In questa stessa direzione moderatamente environmental, ma con un percorso diverso, anche per motivi generazionali, si muove ora la ricerca di Antonio Manfredi. Le sue opere, in cui è assente qualsiasi intenzione di mimetismo naturalistico, recano più di un riferimento all'idea di natura. Alcune teche di plexiglas, realizzate tra l'87 e 1'88, includevano spesso una pietra, una scheggia di marmo, esibita nella sua spoglia conformazione naturale o rivestita d' un azzurro splendente, come se su quell'anonimo frammento, si fosse raccolta la luce del cielo. Una serie di lavori di poco posteriore si apriva direttamente allo spazio della natura: grandi pannelli verticali levavano le loro nitide superfici azzurre sullo sfondo del cielo e del mare. Ma a queste superfici dipinte si affiancavano alcune fasce di plexiglas brunito, che, attraverso il filtro delle trasparenze, consentivano all'opera di includere entro di sè la visione del mare e del cielo. Così, ancora, in uno spazio artificiale può sorgere un'inattesa luna di pietra o in un luogo di astratte geometrie, che si sarebbe detto puramente mentale, si vedono scendere le ombre azzurre della sera. Ma l'idea della natura, presente soprattutto come rimando a una fonte primigenia di energia vitale, dialoga sempre con quella di una rigorosa misura razionale. Pervenuto ora ad una nitida formulazione di geometrie che giocano con grande eleganza a disporsi sul piano e a penetrare nell'ambiente, ma sempre mantenendo la loro aderenza alla superficie materiale delle pareti o del pavimento, Manfredi, attraverso la dislocazione degli elementi delle sue installazioni che concilia rigore e libertà di movimento, mantiene vivo quel rapporto tra artificio e natura da cui era partita la sua ricerca.Vorrei ribadire, con estrema chiarezza che qui è stata tracciata, sia pure nei limiti di un breve ed occasionale testo introduttivo, una vicenda forse non abbastanza conosciuta, ma tutt'altro che marginale nel contesto della cultura artistica italiana. Questa vicenda nsi è on ha in Lanzione e Manfredi semplicemente l'ultimo anello della catena, quello che chiude il cerchio. E ciò sia perchè essa, sebbene si distenda sull'arco di quasi cinquant'anni, vede semplicemente attivi tutti i suoi personaggi, sia perchè non ha mai avuto uno svolgimento lineare, ma , come si è tentato di mostrare, si è sviluppata piuttosto attraverso la molteplicità degli intrecci e delle articolazioni.Ciò risulta più evidente, se al di là della durata dei singoli raggruppamenti e delle diverse ''poetiche'', si fa attenzione all'importanza degli snodi generazionali. Le opere di Lanzione e di Manfredi con la loro limpida presenza s'accordano al tratto di solarità mediterranea proprio di quest'area della ricerca, che sembra rifiutarsi di sprofondare nei grovigli del '' tragico quotidiano ''. Esse, perciò, rinnovano la forte carica d'intenzionalità espressiva e persino quella fiducia nel valore progettuale dell'arte che abbiamo visto segnare in partenza la nostra ''storia''. Ma, oscillando tra veloci slittamenti di piani pittorici e delicate, quasi pellicolari aderenze alle strutture ambientali, lo fanno con un accento nuovo, d'imprevedibile leggerezza e flessibilità.

 
il Manifesto
 
 
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